Nel poker i blind sono una forma di puntata obbligatoria.
Se i giocatori vogliono unirsi al gioco,
devono pagarla prima di vedere le
loro carte.
TILT
Erano passate diverse ore da quando lui se n’era andato, ma non avevo ancora
ripreso a respirare bene. Sentivo la trachea bruciarmi e stavo perdendo
sensibilità alle mani. Tentai di muovere le dita, ma il dolore che si irradiò
dai polsi escoriati fu così forte che mi ritrovai a serrare i denti.
Devo andarmene di qui, pensai.
Più facile a dirsi, che a farsi. Avevo
provato per ore a sciogliere le corde che mi legavano alla sedia, ma non avevo
ottenuto nulla. Le strattonai ancora una volta, disperatamente. Sapevo che era
solo questione di tempo; che presto o tardi sarebbe tornato e che tutto sarebbe
ricominciato da capo…
Sudai freddo, mentre il ricordo di quello che
avevo provato quando mi aveva coperto la bocca con un panno e ci aveva versato
sopra dell’acqua tornava a tormentarmi.
Quanto tempo era passato prima che perdessi
conoscenza?
Secondi? Minuti? Ore?
Uno scricchiolio improvviso mi fece balzare
il cuore in gola.
Tesi
le orecchie, guardandomi intorno.
La
porta si aprì piano.
Poco
dopo sentii qualcuno avanzare verso di me.
Provai
una rabbia cieca, logorante.
I
polmoni mi facevano male.
Forse
era per questo che il mio respiro si
era fatto così pesante, o forse era perché sapevo che non avrei respirato ancora a lungo.
Ma
andava bene così.
Il gioco era durato fin troppo.
Non avevo più voglia di nascondermi, né di
combattere.
Era ora di chiudere la partita.
PARTE I
I
giocatori mettono sul piatto le loro puntate.
Si
mescolano le carte.
tre giorni prima
Il ghiaccio nel bicchiere stava cominciando a
sciogliersi.
Restavano due dita o poco più di pin͂a
colada, ma non avevo alcuna intenzione di andarmene e mettere fine a una delle
serate più emozionanti di tutta la mia vita. Sorridevo ebbra di vita. Mi
sentivo bella e potente come non mai. Non ero io a dirlo: era la mia immagine
che vedevo riflessa negli specchi a farmi da testimone.
E mi piaceva.
Incurvai le labbra in un fosco sorriso. Presi
la fetta d’ananas che guarniva il mio drink e la succhiai senza fretta. Gli
uomini mi guardavano. Sentivo le loro attenzioni risalirmi la schiena lasciata
nuda dal vestito e soffermarsi sul dettaglio che era riuscito a distrarre
persino il dealer del tavolo di black-jack,
ovvero il colore rosa intenso dei miei capelli.
Non ero quello che poteva dirsi un tipo
comune. Le regole e la morale non facevano per me. Adoravo mettermi nei guai,
prendere decisioni azzardate e attirare le attenzioni degli uomini per poi
respingerli nel peggiore dei modi.
Quella sera avevo già mandato in bianco un
paio di personaggi davvero notevoli. Una donna diversa avrebbe potuto sentirsi
in colpa. Io, invece, non vedevo l’ora di rifarlo di nuovo…
Cattiva, cattiva ragazza,
pensai tra me e me.
Prima o poi qualcuno ti punirà per questo.
Risi da sola, così, senza un motivo. O forse
un motivo c’era, ed era che avevo bevuto un po’ troppo. Mi sistemai meglio
sullo sgabello e ordinai un altro drink. Le luci e gli specchi che adornavano
il lounge bar del Bellagio mi stavano dando alla testa. Le decorazioni con i
cerchi d’oro intrecciati si susseguivano di continuo. Erano ovunque: sui
tappeti, nelle vetrinette del bar, sulle pareti e persino sui bicchieri. Magari
era a causa di tutti quei cerchi se avevo l’impressione che la stanza stesse
ruotando su se stessa, o forse era semplicemente perché era ora di tornare in
albergo.
E lo avrei fatto, certo.
Se soltanto fossi riuscita ad alzarmi in
piedi senza barcollare…
Il barista mi posò davanti un nuovo drink.
Ero consapevole di trovarmi vicina al limite, ma nonostante questo non esitai
ad allungare una mano verso il bicchiere. Nella mia testa pensai di prenderlo,
ma le mie dita si chiusero a vuoto.
Sbattei le palpebre un paio di volte, incerta. Anche se non ero del tutto
sobria, ero ancora abbastanza lucida da essere padrona dei miei gesti.
Non ero stata io a mancare la presa sul
bicchiere.
Era stato qualcuno ad allontanarlo da me.
Feci scivolare lo sguardo lungo il bancone,
fino al mio drink e alla mano che aveva osato portarmelo via. Aveva delle dita
lunghe, forti. E segni d’inchiostro che spuntavano sotto il polsino della
camicia.
Interessante.
Avevo un debole per gli uomini con i
tatuaggi, anche se l’ultima volta che ero stata arrestata era accaduto proprio
a causa di un tizio con il corpo completamente ricoperto di inchiostro. Era
stato allora che avevo promesso a me stessa di fare più attenzione agli uomini;
e in particolare a quelli troppo pieni di sé o troppo pieni di fascino.
Scossi la testa e lo ignorai di proposito,
sperando che capisse da solo che non ero in vena di compagnia. Ovviamente non
fu così. Tamburellò le dita sul bancone e mi parlò, pretendendo la mia
attenzione.
«Signorina, dovrebbe venire con me.»
Dovrebbe?
Posai la fetta d’ananas che stavo spizzicando
e arricciai il naso, sorpresa e seccata dal tono che aveva usato per rivolgersi
a me. Quando poco meno di mezz’ora prima un tizio elegante mi si era avvicinato
e aveva fatto scivolare lungo il bancone la chiave magnetica della sua stanza,
avevo creduto di avere assistito al peggior abbordaggio di sempre.
Quanto sbagliavo.
Gonfiai il petto e stirai le labbra in un
sorriso ostile, ma non mi voltai verso di lui. Un uomo tanto borioso e sgarbato
non meritava il mio sguardo, né il mio tempo. Solo una cattiva risposta.
«Sai, di solito quando si intende fare colpo
su una donna le si offre da bere. Non le si porta via il bicchiere.»
E non le si dice cosa deve o non deve fare,
aggiunsi mentalmente.
Attesi che ribattesse alla mia provocazione o
che se ne andasse, ma lui non fece nessuna delle due cose. Voltai appena il
capo e gli lanciai un’occhiata sprezzante. Pessima scelta. Nonostante le
cattive maniere non era affatto male. Era vestito elegante,
con un bel completo grigio e una cravatta scura e sottile che spiccava su una
camicia dal taglio moderno. Portava i capelli pettinati all’indietro e aveva un
buon odore; uno di quelli che ti restano addosso dopo che ci hai fatto l’amore.
Si mosse con cautela. Allontanò la mano dal
mio bicchiere e si aggiustò il polsino della camicia, nonostante non ci fosse
nulla da sistemare. Poi mi guardò dritto negli occhi.
«I convenevoli non mi interessano» sentenziò
secco. «Non sono qui per chiederle di venire con me. Io glielo sto ordinando.»
Sentii una morsa stringermi lo stomaco.
Questa volta la sua voce era diversa. Non era
solo ruvida.
Era intransigente.
Sollevai il mento e contraccambiai il suo
sguardo, studiandolo.
Era davvero affascinante, con quei lineamenti
così marcati e quegli occhi scuri e profondi. Tutto, in lui, pareva essere
stato progettato per colpire e affondare, a partire dalla barba un poco incolta
fino al profumo esageratamente sensuale e alla muscolatura definita che la
camicia bianca non riusciva a nascondere. Era un peccato che non mi piacessero
gli arroganti, altrimenti ci avrei fatto più di un pensiero prima di lasciare
Las Vegas.
Gli sorrisi di nuovo, prendendomi gioco di
lui. «Sei carino “Mister occhi neri”, questo te lo concedo. Ma guardarmi in
quel modo e darmi ordini non ti aiuterà a portarmi nel tuo letto. Né in
qualsiasi altro posto tu voglia.»
«Tu credi?»
Avanzò verso di me. Lento, ma inesorabile. Un
brivido di aspettativa mi attraversò il corpo. Ancora un passo e mi avrebbe
toccata. Ero combattuta; non sapevo se temerlo o desiderarlo.
«Io dico che mi seguirai in ogni caso.»
Non feci in tempo a replicare. Un uomo
gigantesco comparve alle mie spalle. Mi afferrò per un braccio e mi costrinse
ad alzarmi in piedi. Le ginocchia cedettero, tanto che dovette sostenermi per
evitare che finissi a terra. Lui non profumava di buono. Puzzava di fumo. E mi
guardava in una maniera che non mi piaceva per nulla.
Tentai di ribellarmi, ma non servì a niente.
L’uomo che mi aveva approcciato al bar si voltò e gli fece cenno di seguirlo.
Superammo i divanetti del locale ed entrammo nella sala delle slot. Il rumore
era assordante. Non c’era un solo istante in cui qualcuno non scommettesse
qualcosa e non facesse suonare quelle macchinette infernali. La testa mi stava
esplodendo. Cercai aiuto con gli occhi, invano. Quando la gente giocava entrava
in una sorta di trance.
Nessuno capiva. Nessuno vedeva. Nessuno
ascoltava.
«Posso camminare da sola!» gridai. Non cambiò
nulla. Anche se non riuscivo a vederlo, ebbi il presentimento che l’uomo che mi
aveva avvicinato stesse ridendo di me.
Te ne pentirai.
Sfoderò un tesserino magnetico e lo usò per
aprire una porta nascosta dietro una tenda. La sala delle slot era piena di tende che
pendevano dal soffitto. Si diceva che il velluto attutisse i suoni, infatti una
volta varcata la soglia ogni voce, ogni musica e ogni grido svanì
completamente. Fu come entrare in un altro mondo. Messi da parte il lusso,
l’oro e gli specchi ci trovammo in un corridoio dritto e stretto, senza porte
né finestre. Le pareti erano di cemento, le luci artificiali erano così bianche
da costringermi a socchiudere gli occhi. Arrivammo a una scala lunga e angusta,
che pareva puntare dritta verso i sotterranei del Bellagio. L’energumeno che mi
stava trascinando serrò la presa per impedirmi di scivolare sui gradini.
Cominciai ad avere freddo. Lì sotto la
temperatura era più bassa. Il vestito che indossavo mi lasciava le braccia e la
schiena nude. Rabbrividii, ma non smisi di camminare. Dopo un altro corridoio
ci trovammo davanti a quattro porte che dovevano dare accesso ad altrettante
stanze. Fui gettata dentro una di queste senza troppo riguardo. Mi abbracciai
il corpo, non per la paura, ma per il gelo.
«Dove diavolo siamo?»
Tre delle quattro pareti che mi circondavano,
inclusa quella su cui si trovava la porta dalla quale ero entrata, erano
bianche. La quarta era attraversata da uno specchio basso e lungo. Lo spazio
non era molto, ma era abbastanza da contenere un tavolo con due sedie e da
lasciarmi libera di fare qualche passo.
Mi guardai intorno. Sul tavolo erano adagiate
delle manette e una bottiglia d’acqua con due bicchieri. Il pavimento era ricoperto
da una pietra dura e irregolare, tanto da rendermi difficile camminarci sopra
con i tacchi senza inciampare. Il rumore dell’uscio che sbatteva mi fece
sobbalzare. Mi voltai, incespicando nei miei stessi piedi.
«Siediti» mi intimò l’uomo con gli occhi neri.
Eravamo rimasti soli.
Il freddo mi abbandonò così com’era arrivato.
La sola idea di rimanere con lui all’interno di una stanza chiusa mi fece
bruciare il sangue nelle vene. Mi mancò il respiro, tuttavia raddrizzai la
schiena e sollevai il mento con determinazione.
«Non mi siedo finché non mi dici cosa sta
succedendo.»
Mi lanciò un’occhiata carica di scherno, poi
versò dell’acqua in uno dei bicchieri che erano sul tavolo. «Le gambe non ti
reggeranno a lungo, con quello che hai bevuto, e non credo che ce la caveremo
prima di un paio d’ore.»
Qualcosa mi morse il ventre. Due ore chiusa
con lui in una stanza senza finestre. Non ero pronta. Mi avvicinai alla porta
da cui ero entrata e tentai di aprirla. Era bloccata, ma qualcosa mi diceva che
se fossi riuscita a raggiungere il tesserino che quell’uomo aveva in tasca la
faccenda sarebbe cambiata. Dovevo soltanto sforzarmi di restare calma e di
pensare.
Mi voltai verso di lui e l’osservai. Si era
seduto. Aveva gettato un braccio di traverso sullo schienale e aveva
accavallato le gambe. Pareva tranquillo. Con le dita lisciava il bordo del
bicchiere che aveva riempito. Mi guardava. Mi sfidava.
Ma doveva ancora nascere l’uomo capace di
mettermi paura.
«Perché siamo qui?»
Mi sorrise. Un sorriso aperto, ma non sincero.
«Perché non ti siedi con me, Corinne?»
Sapeva il mio nome, oltre al fatto che avevo
bevuto. Mi domandai di cos’altro fosse a conoscenza e quanto fosse saggio
accettare la sua proposta. In ogni caso non avevo scelta. Quando ti univi a un
tavolo da poker e giocavi contro un mazziere esperto, avevi un modo soltanto di
uscire senza perdere tutto: bluffare.
Mi avvicinai a lui, ma non gli permisi di
prevedere le mie mosse. Ignorai la sedia e mi accomodai direttamente sul
tavolo. Accavallai le gambe proprio di fronte al suo viso. Vidi i suoi occhi
tuffarsi tra le pieghe della mia gonna per poi tornare a sollevarsi nel giro di
un battito di ciglia.
Aveva un buon autocontrollo, questo potevo
riconoscerglielo.
Ma non gli ero affatto indifferente.
Un punto per me.
Piegai il capo di lato e gli sorrisi
affabile.
«Allora, come sai il mio nome?»
Si inumidì le labbra e sollevò appena il
mento. Il tatuaggio che cominciava alla base del suo collo palpitò quando si
ritrovò a deglutire, provocandomi un brivido di puro piacere.
«Chiediamo i documenti di tutti i giocatori
all’ingresso.»
Mi lasciai sfuggire un sospiro frustrato e
sollevai gli occhi al cielo. Odiavo essere brilla, rallentava la mia capacità
di giudizio. L’uomo che mi aveva avvicinato al bar non lo aveva fatto perché
voleva provarci con me. Possedeva un tesserino che gli consentiva di accedere a
tutte le aree del Bellagio, anche a quelle protette, e poteva consultare
liberamente le banche dati dei visitatori.
Lavorava per il casinò. E io non ero lì per
caso, né per un errore.
Si trattava di un controllo in piena regola.
Continua…
Ma che monellaccia che sei
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