PRIMI CAPITOLI


Nel poker i blind sono una forma di puntata obbligatoria.
Se i giocatori vogliono unirsi al gioco, devono pagarla prima di vedere le loro carte.
 
 


 


 
 

TILT

 
 
 
Erano passate diverse ore da quando lui se n’era andato, ma non avevo ancora ripreso a respirare bene. Sentivo la trachea bruciarmi e stavo perdendo sensibilità alle mani. Tentai di muovere le dita, ma il dolore che si irradiò dai polsi escoriati fu così forte che mi ritrovai a serrare i denti.
Devo andarmene di qui, pensai.
Più facile a dirsi, che a farsi. Avevo provato per ore a sciogliere le corde che mi legavano alla sedia, ma non avevo ottenuto nulla. Le strattonai ancora una volta, disperatamente. Sapevo che era solo questione di tempo; che presto o tardi sarebbe tornato e che tutto sarebbe ricominciato da capo…
Sudai freddo, mentre il ricordo di quello che avevo provato quando mi aveva coperto la bocca con un panno e ci aveva versato sopra dell’acqua tornava a tormentarmi.
Quanto tempo era passato prima che perdessi conoscenza?
Secondi? Minuti? Ore?
Uno scricchiolio improvviso mi fece balzare il cuore in gola.
Tesi le orecchie, guardandomi intorno.
La porta si aprì piano.
Poco dopo sentii qualcuno avanzare verso di me.
Provai una rabbia cieca, logorante.
I polmoni mi facevano male.
Forse era per questo che il mio respiro  si era fatto così pesante, o forse era perché sapevo che non avrei respirato ancora a lungo.
Ma andava bene così.
Il gioco era durato fin troppo.
Non avevo più voglia di nascondermi, né di combattere.
Era ora di chiudere la partita.
 
 
 




 
 
 

PARTE I

 I giocatori mettono sul piatto le loro puntate.
Si mescolano le carte.
 


 
 
  


 
tre giorni prima




 


 
Il ghiaccio nel bicchiere stava cominciando a sciogliersi.
Restavano due dita o poco più di pin͂a colada, ma non avevo alcuna intenzione di andarmene e mettere fine a una delle serate più emozionanti di tutta la mia vita. Sorridevo ebbra di vita. Mi sentivo bella e potente come non mai. Non ero io a dirlo: era la mia immagine che vedevo riflessa negli specchi a farmi da testimone.
E mi piaceva.
Incurvai le labbra in un fosco sorriso. Presi la fetta d’ananas che guarniva il mio drink e la succhiai senza fretta. Gli uomini mi guardavano. Sentivo le loro attenzioni risalirmi la schiena lasciata nuda dal vestito e soffermarsi sul dettaglio che era riuscito a distrarre persino il dealer del tavolo di black-jack, ovvero il colore rosa intenso dei miei capelli.
Non ero quello che poteva dirsi un tipo comune. Le regole e la morale non facevano per me. Adoravo mettermi nei guai, prendere decisioni azzardate e attirare le attenzioni degli uomini per poi respingerli nel peggiore dei modi.
Quella sera avevo già mandato in bianco un paio di personaggi davvero notevoli. Una donna diversa avrebbe potuto sentirsi in colpa. Io, invece, non vedevo l’ora di rifarlo di nuovo…
Cattiva, cattiva ragazza, pensai tra me e me.
Prima o poi qualcuno ti punirà per questo.
Risi da sola, così, senza un motivo. O forse un motivo c’era, ed era che avevo bevuto un po’ troppo. Mi sistemai meglio sullo sgabello e ordinai un altro drink. Le luci e gli specchi che adornavano il lounge bar del Bellagio mi stavano dando alla testa. Le decorazioni con i cerchi d’oro intrecciati si susseguivano di continuo. Erano ovunque: sui tappeti, nelle vetrinette del bar, sulle pareti e persino sui bicchieri. Magari era a causa di tutti quei cerchi se avevo l’impressione che la stanza stesse ruotando su se stessa, o forse era semplicemente perché era ora di tornare in albergo.
E lo avrei fatto, certo.
Se soltanto fossi riuscita ad alzarmi in piedi senza barcollare…
Il barista mi posò davanti un nuovo drink. Ero consapevole di trovarmi vicina al limite, ma nonostante questo non esitai ad allungare una mano verso il bicchiere. Nella mia testa pensai di prenderlo, ma le mie dita si chiusero a vuoto. Sbattei le palpebre un paio di volte, incerta. Anche se non ero del tutto sobria, ero ancora abbastanza lucida da essere padrona dei miei gesti.
Non ero stata io a mancare la presa sul bicchiere.
Era stato qualcuno ad allontanarlo da me.
Feci scivolare lo sguardo lungo il bancone, fino al mio drink e alla mano che aveva osato portarmelo via. Aveva delle dita lunghe, forti. E segni d’inchiostro che spuntavano sotto il polsino della camicia.
Interessante.
Avevo un debole per gli uomini con i tatuaggi, anche se l’ultima volta che ero stata arrestata era accaduto proprio a causa di un tizio con il corpo completamente ricoperto di inchiostro. Era stato allora che avevo promesso a me stessa di fare più attenzione agli uomini; e in particolare a quelli troppo pieni di sé o troppo pieni di fascino.
Scossi la testa e lo ignorai di proposito, sperando che capisse da solo che non ero in vena di compagnia. Ovviamente non fu così. Tamburellò le dita sul bancone e mi parlò, pretendendo la mia attenzione.
«Signorina, dovrebbe venire con me.»
Dovrebbe?
Posai la fetta d’ananas che stavo spizzicando e arricciai il naso, sorpresa e seccata dal tono che aveva usato per rivolgersi a me. Quando poco meno di mezz’ora prima un tizio elegante mi si era avvicinato e aveva fatto scivolare lungo il bancone la chiave magnetica della sua stanza, avevo creduto di avere assistito al peggior abbordaggio di sempre.
Quanto sbagliavo.
Gonfiai il petto e stirai le labbra in un sorriso ostile, ma non mi voltai verso di lui. Un uomo tanto borioso e sgarbato non meritava il mio sguardo, né il mio tempo. Solo una cattiva risposta.
«Sai, di solito quando si intende fare colpo su una donna le si offre da bere. Non le si porta via il bicchiere.»
E non le si dice cosa deve o non deve fare, aggiunsi mentalmente.
Attesi che ribattesse alla mia provocazione o che se ne andasse, ma lui non fece nessuna delle due cose. Voltai appena il capo e gli lanciai un’occhiata sprezzante. Pessima scelta. Nonostante le cattive maniere non era affatto male. Era vestito elegante, con un bel completo grigio e una cravatta scura e sottile che spiccava su una camicia dal taglio moderno. Portava i capelli pettinati all’indietro e aveva un buon odore; uno di quelli che ti restano addosso dopo che ci hai fatto l’amore.
Si mosse con cautela. Allontanò la mano dal mio bicchiere e si aggiustò il polsino della camicia, nonostante non ci fosse nulla da sistemare. Poi mi guardò dritto negli occhi.
«I convenevoli non mi interessano» sentenziò secco. «Non sono qui per chiederle di venire con me. Io glielo sto ordinando
Sentii una morsa stringermi lo stomaco.
Questa volta la sua voce era diversa. Non era solo ruvida.
Era intransigente.
Sollevai il mento e contraccambiai il suo sguardo, studiandolo.
Era davvero affascinante, con quei lineamenti così marcati e quegli occhi scuri e profondi. Tutto, in lui, pareva essere stato progettato per colpire e affondare, a partire dalla barba un poco incolta fino al profumo esageratamente sensuale e alla muscolatura definita che la camicia bianca non riusciva a nascondere. Era un peccato che non mi piacessero gli arroganti, altrimenti ci avrei fatto più di un pensiero prima di lasciare Las Vegas.
Gli sorrisi di nuovo, prendendomi gioco di lui. «Sei carino “Mister occhi neri”, questo te lo concedo. Ma guardarmi in quel modo e darmi ordini non ti aiuterà a portarmi nel tuo letto. Né in qualsiasi altro posto tu voglia.»
«Tu credi?»
Avanzò verso di me. Lento, ma inesorabile. Un brivido di aspettativa mi attraversò il corpo. Ancora un passo e mi avrebbe toccata. Ero combattuta; non sapevo se temerlo o desiderarlo.
«Io dico che mi seguirai in ogni caso.»
Non feci in tempo a replicare. Un uomo gigantesco comparve alle mie spalle. Mi afferrò per un braccio e mi costrinse ad alzarmi in piedi. Le ginocchia cedettero, tanto che dovette sostenermi per evitare che finissi a terra. Lui non profumava di buono. Puzzava di fumo. E mi guardava in una maniera che non mi piaceva per nulla.
Tentai di ribellarmi, ma non servì a niente. L’uomo che mi aveva approcciato al bar si voltò e gli fece cenno di seguirlo. Superammo i divanetti del locale ed entrammo nella sala delle slot. Il rumore era assordante. Non c’era un solo istante in cui qualcuno non scommettesse qualcosa e non facesse suonare quelle macchinette infernali. La testa mi stava esplodendo. Cercai aiuto con gli occhi, invano. Quando la gente giocava entrava in una sorta di trance.
Nessuno capiva. Nessuno vedeva. Nessuno ascoltava.
«Posso camminare da sola!» gridai. Non cambiò nulla. Anche se non riuscivo a vederlo, ebbi il presentimento che l’uomo che mi aveva avvicinato stesse ridendo di me.
Te ne pentirai.
Sfoderò un tesserino magnetico e lo usò per aprire una porta nascosta dietro una tenda. La sala delle slot era piena di tende  che pendevano dal soffitto. Si diceva che il velluto attutisse i suoni, infatti una volta varcata la soglia ogni voce, ogni musica e ogni grido svanì completamente. Fu come entrare in un altro mondo. Messi da parte il lusso, l’oro e gli specchi ci trovammo in un corridoio dritto e stretto, senza porte né finestre. Le pareti erano di cemento, le luci artificiali erano così bianche da costringermi a socchiudere gli occhi. Arrivammo a una scala lunga e angusta, che pareva puntare dritta verso i sotterranei del Bellagio. L’energumeno che mi stava trascinando serrò la presa per impedirmi di scivolare sui gradini.
Cominciai ad avere freddo. Lì sotto la temperatura era più bassa. Il vestito che indossavo mi lasciava le braccia e la schiena nude. Rabbrividii, ma non smisi di camminare. Dopo un altro corridoio ci trovammo davanti a quattro porte che dovevano dare accesso ad altrettante stanze. Fui gettata dentro una di queste senza troppo riguardo. Mi abbracciai il corpo, non per la paura, ma per il gelo.
«Dove diavolo siamo?»
Tre delle quattro pareti che mi circondavano, inclusa quella su cui si trovava la porta dalla quale ero entrata, erano bianche. La quarta era attraversata da uno specchio basso e lungo. Lo spazio non era molto, ma era abbastanza da contenere un tavolo con due sedie e da lasciarmi libera di fare qualche passo.
Mi guardai intorno. Sul tavolo erano adagiate delle manette e una bottiglia d’acqua con due bicchieri. Il pavimento era ricoperto da una pietra dura e irregolare, tanto da rendermi difficile camminarci sopra con i tacchi senza inciampare. Il rumore dell’uscio che sbatteva mi fece sobbalzare. Mi voltai, incespicando nei miei stessi piedi.
«Siediti» mi intimò l’uomo con gli occhi neri.
Eravamo rimasti soli.
Il freddo mi abbandonò così com’era arrivato. La sola idea di rimanere con lui all’interno di una stanza chiusa mi fece bruciare il sangue nelle vene. Mi mancò il respiro, tuttavia raddrizzai la schiena e sollevai il mento con determinazione.
«Non mi siedo finché non mi dici cosa sta succedendo.»
Mi lanciò un’occhiata carica di scherno, poi versò dell’acqua in uno dei bicchieri che erano sul tavolo. «Le gambe non ti reggeranno a lungo, con quello che hai bevuto, e non credo che ce la caveremo prima di un paio d’ore.»
Qualcosa mi morse il ventre. Due ore chiusa con lui in una stanza senza finestre. Non ero pronta. Mi avvicinai alla porta da cui ero entrata e tentai di aprirla. Era bloccata, ma qualcosa mi diceva che se fossi riuscita a raggiungere il tesserino che quell’uomo aveva in tasca la faccenda sarebbe cambiata. Dovevo soltanto sforzarmi di restare calma e di pensare.
Mi voltai verso di lui e l’osservai. Si era seduto. Aveva gettato un braccio di traverso sullo schienale e aveva accavallato le gambe. Pareva tranquillo. Con le dita lisciava il bordo del bicchiere che aveva riempito. Mi guardava. Mi sfidava.
Ma doveva ancora nascere l’uomo capace di mettermi paura.
«Perché siamo qui?»
Mi sorrise. Un sorriso aperto, ma non sincero.
«Perché non ti siedi con me, Corinne?»
Sapeva il mio nome, oltre al fatto che avevo bevuto. Mi domandai di cos’altro fosse a conoscenza e quanto fosse saggio accettare la sua proposta. In ogni caso non avevo scelta. Quando ti univi a un tavolo da poker e giocavi contro un mazziere esperto, avevi un modo soltanto di uscire senza perdere tutto: bluffare.
Mi avvicinai a lui, ma non gli permisi di prevedere le mie mosse. Ignorai la sedia e mi accomodai direttamente sul tavolo. Accavallai le gambe proprio di fronte al suo viso. Vidi i suoi occhi tuffarsi tra le pieghe della mia gonna per poi tornare a sollevarsi nel giro di un battito di ciglia.
Aveva un buon autocontrollo, questo potevo riconoscerglielo.
Ma non gli ero affatto indifferente.
Un punto per me.
Piegai il capo di lato e gli sorrisi affabile.
«Allora, come sai il mio nome?»
Si inumidì le labbra e sollevò appena il mento. Il tatuaggio che cominciava alla base del suo collo palpitò quando si ritrovò a deglutire, provocandomi un brivido di puro piacere.
«Chiediamo i documenti di tutti i giocatori all’ingresso.»
Mi lasciai sfuggire un sospiro frustrato e sollevai gli occhi al cielo. Odiavo essere brilla, rallentava la mia capacità di giudizio. L’uomo che mi aveva avvicinato al bar non lo aveva fatto perché voleva provarci con me. Possedeva un tesserino che gli consentiva di accedere a tutte le aree del Bellagio, anche a quelle protette, e poteva consultare liberamente le banche dati dei visitatori.
Lavorava per il casinò. E io non ero lì per caso, né per un errore.
Si trattava di un controllo in piena regola.



Continua…
 
 

3 commenti: